Di Caterina Mortillaro
La Fondazione Sozzani presenta a Milano per il 25° anno consecutivo il World Press Photo, uno dei più prestigiosi premi di fotogiornalismo. Una mostra che non può lasciare indifferenti per il suo impatto per certi versi scioccante.
Le categorie coprono molti temi della fotografia giornalistica: Attualità (Contemporary Issues), Ambiente (Environment), Notizie Generali (General News),Progetti a Lungo Termine (Long-Term Projects), Natura (Nature), Ritratti (Portraits), Sport, Spot News.
La scelta del vincitore è già di per sé un manifesto programmatico per il suo significato: il prestigioso premio World Press Photo of the Year 2019, infatti, è stato assegnato al fotografo John Moore (Stati Uniti), nella categoria “Spot News” per la foto della bambina honduregna che piange ai piedi della madre fermata dalla polizia di frontiera tra Messico e Stati Uniti.
Un’immagine forte, come del resto lo sono quasi tutte quelle premiate. Con rare eccezioni, relative ad alcune fotografie naturalistiche e ad alcune di carattere squisitamente antropologico, questi scatti si offrono agli occhi, alla mente e al cuore del visitatore come messaggi polisemici, capaci di illuminare gli angoli sovente oscuri di questo mondo che somiglia, purtroppo, ogni giorno di più a una distopia, partorita dalla mente fervida di qualche fantascientista visionario.
Attraverso quello che Roland Barthes chiamava “ancoraggio”, ovvero la modalità con la quale la didascalia chiarisce il senso altrimenti vago e molteplice dell’immagine, esse ci raccontano storie così dure, crude, che invitano a una seria riflessione sul presente e sul futuro.
I deboli e le vittime: veri protagonisti della World Press Photo Exhibition
Protagonisti e vittime sono in molti casi i deboli.
Grande peso hanno i bambini: quelli non ancora nati delle donne guerrigliere, quelli che migrano verso una speranza spesso disattesa, quelli intrappolati in una realtà che non hanno scelto e che segnerà la loro vita.
Desolante, ad esempio, l’immagine di Marco Gualazzini, finalista nella categoria “Ambiente” con un reportage sulla crisi umanitaria del bacino del Ciad: un ragazzino, orfano, cammina sullo sfondo di un muro ricoperto di disegni che raffigurano armi, a simboleggiare il pericolo che corre di essere arruolato nelle fila dei fondamentalisti. Ma sono vittime di questa distopia anche i bambini-soldato dell’occidente ricco, cui viene messo in mano un fucile perché imparino il patriottismo da un lato e l’odio dall’altro (è il caso della “storia” raccontata da Sarah Blesener intitolata “Il richiamo a casa”).
Altre protagoniste sono le donne che si sono spogliate delle loro presunta debolezza per farsi strada ora a pugni, ora con le armi, ora con la forza dell’arte. A tale riguardo sono significativi gli scatti di Catalina Martin-Chico (Francia /Spagna) nella categoria “Contemporary Issues”, dove è immortalata un’ex combattente delle FARC incinta dopo lo scioglimento del gruppo, e Brent Stirton (Sudafrica), nella categoria “Ambiente” con la foto di una donna dell’unità antibracconaggio nel Parco naturale Phundundu in Zimbabwe.
Tra guerra e disastro ecologico: la Terra che soffre
Il tema della sofferenza a causa della guerra e delle ferite all’ambiente campeggia quasi ovunque.
In numerose fotografie compaiono il sangue, i massacri, ma anche la solitudine del soldato ferito nello spirito e nel corpo. Come non ricordare le parole di Ungaretti, di fronte alla foto di Enayat Asasi: “Un’intera nottata / buttato vicino/ a un compagno/ massacrato/ con la sua bocca/ digrignata/ volta al plenilunio/ con la congestione/ delle sue mani/ penetrata/ nel mio silenzio (…)”
Debole e bistrattata, vittima per eccellenza, è poi la Terra coperta di rifiuti, martoriata. Gli animali che subiscono ogni sorta di crudeltà ti guardano impotenti da dentro le immagini come le rane che cercano di risalire in superficie con le zampe posteriori mozzate mentre ancora sono vive.
Una mostra, quindi, che va ben oltre l’esperienza estetica e visiva, sebbene sia palese la perizia dei fotografi premiati. Un viaggio, piuttosto, nella distopia del reale attraverso imagini mute, ma capaci di gridare in modo assordante.
E che confermano come il fotogiornalismo “debba” sempre più produrre immagini shock per farsi largo fra la marea di immagini in cui viviamo. Ci auguriamo, quindi, che questi scatti abbiano un impatto su chi guarda e non si perdano in questi flutti insidiosi, che omologano e manipolano tutto, anche le coscienze.