Di Lucia Di Girolamo *
Lucido e pulito come un tavolo chirurgico: è Dolor y Gloria, l’ultima fatica di Pedro Almodóvar. D’altronde il film si apre con il racconto analitico, a tratti ossessivo, dell’acquisita competenza medica che il protagonista, Salvador Mallo, genio ipocondriaco, può vantare circa il funzionamento del suo corpo, spiegato con una prospettiva da documentario.
La nitidezza della visione fa di quest’opera il lavoro più autobiografico di Almodóvar, proprio perché è un racconto. Forse soltanto in coda, quando compare il ricordo della madre, il fascino della nostalgia dolorosa ci riporta al regista di Volver o di Tutto su mia madre.
Tuttavia, soltanto uno sguardo limpido può rimettere insieme i pezzi di una vita, cercare le più profonde ragioni delle scelte e dei comportamenti che determinano un’esistenza. E in questo il cinenasta manchego è davvero un maestro, lo è sempre stato, ma in Dolor y gloria inforca una strada inedita. Pedro si mette davanti a Pedro e gli chiede la resa dei conti. Niente più maschere, travestimenti, fantasmi e palcoscenici. Almeno all’apparenza. È pur vero che già nel 2013, in Amanti passeggeri, il regista aveva messo su un aereo i suoi grotteschi personaggi e li aveva spediti lontani da casa. Era stato un atto simbolico, un rito di passaggio verso un’altra età. Nel film successivo, poi, la protagonista ritrova sé stessa senza l’ausilio di particolari artifici. Julieta, del 2016, è infatti un canale – il concetto di pontos viene continuamente richiamato nel film – che conduce all’interno di sé stessi, nel luogo più profondo del dolore. Questo luogo si trova nell’inevitabile solitudine della depressione di un anziano regista, che alcuni eventi casuali legati alle celebrazioni del primo capolavoro gettano nella sua crisi depressiva più violenta.
Salvador Mallo, un inarrivabile Banderas – qui all’interpretazione della sua vita –, non può allora far a meno di prendere in mano questa sofferenza e trasformarla, appunto, nel suo ponte verso la riscoperta di una vena creativa creduta persa nell’aridità di una vecchiaia da malato immaginario.
Almodóvar è, però, sempre Almodóvar, i ricordi, le immagini di un passato che deve essere ricomposto come un puzzle per acquistare senso, caratterizzano tutte le sue opere. Il cinema è l’artificio degli artifici, quello in grado, con la sua magia, di illuminare i meandri bui della memoria, di riaprire file dimenticati, completare storie lasciate incompiute, rivalutare amori finiti nel dolore dell’abbandono. Persino la tardiva passione per l’eroina che investe il protagonista è soltanto un mezzo per scuotere una mente addormentata dalla depressione e rilanciarla verso un inatteso – e profondamente desiderato – exploit artistico.
Pedro è Salvador, ma Mallo è soltanto un pretesto per rimettere in moto la macchina del cinema, che alla fine è l’unica grande verità che interessa ad Almodóvar.
*Lucia Di Girolamo è esperta di cinema muto e ha scritto “Per amore e per gioco. Sul cinema di Pedro Almodóvar” (Ets 2015) e “Il cinema e la città. Identità, riscritture e sopravvivenza nel cinema napoletano” (Ets 2014).
Inspiring quest there. What occurred after? Take care!