Di Lelio Naccari.
Dux in Scatola, spettacolo dell’assennato Daniele Timpano, nacque per la prima volta nel 2006 e andò in scena a Messina lunedì 29 luglio 2019 (cioè tre giorni fa), all’interno del Cortile Teatro Festival. Timpano fu, e per fortuna è, drammaturgo, regista e attore teatrale italiano. Fu ascritto da alcuni critici alla cosiddetta non-scuola romana, tendenza del teatro di ricerca composta da personalità molto diverse ma unite da una comicità surreale, anarco-dadaista, invenzioni metalinguistiche e impegno civile. S’inserì, secondo alcuni, nel filone del teatro di narrazione.
Lavorò principalmente con la sua compagna di vita, Elvira Frosini, e il repertorio riguardante avvenimenti storici assorbì circa il 70% della loro produzione. Per Frosini/Timpano il rapporto fra teatro e passato storico fu costante, ritenendo che la storia potesse parlare DEL presente DAL presente. La loro drammaturgia mischiò simpatia e violenza, stile futurista e retrò, alcol e paracetamolo, provocando danni anche legali al fegato.
Grazie a un’ironia amarognola e a un certo senso del buffo, usarono più volte violenza psicologica sullo spettatore che alle loro performance poteva ritrovarsi catapultato, da un divertente lazzo linguistico al candido resoconto di fatti orribili, giocoso nella forma, ma stringente nel suo rapporto con la verità storica.
Dux in scatola: recensione
“Nella nostra bella Italia, tra le due guerre, fioriva uno statista meraviglioso: Benito Mussolini. Facciamo uno sforzo d’immaginazione collettiva: fate conto che sia io. Morto.” Sono le prime parole ma non l’inizio, dello spettacolo.
La performance al cortile si apre con un lungo momento di silenzio in cui l’attore, regista e autore dell’opera, sta immobile davanti al pubblico in posa plastica. Con almeno 4 effetti fondamentali: 1) Renderci sensibili a tutti i suoni provenienti dalla strada, dal vicinato e dall’interno del cortile, inclusa l’immancabile autoclave. 2) Far correre tra i mormorii del pubblico varie domande: “Che aspetta? Manca qualcosa? Vuole il massimo silenzio o una lamentela? Ce sta a pijà per culo?” 3) Farmi ridere senza sapere perché. 4) Far commentare alla signora alla mia destra: “Non si sente.”
Avere una presenza esperta permette all’attore di appropriarsi dello spazio con il solo stare, e ricamare un filo invisibile fra sé e il pubblico.
Poi però la vis comica di Daniele Timpano e il suo ritmo frenetico e pieno di rotture afferrano l’attenzione dell’uditorio, inchiodandolo fino alla fine di questo raptus avanguardista. L’attore/pupazzo in scena ricorda un mix fra Antonio Rezza e Alessandro Barbero, soprattutto quest’ultimo, per il particolare modo di animare le mani, che permette e trasmette una certa agilità e duttilità interiori.
Daniele trasuda intelletto e ben amministrata goffaggine, con scosse di energia e arzigogoli. Difficile non risulti simpatico. Così la storia della salma di Mussolini viene proposta in prima persona, a precipizio, come in un flusso di ricordi che passa con gli stessi guizzi su curiosità e avvenimenti secondari, come su quelli principali e truculenti.
“La memoria conserva delle cose che la storia fa fatica a recuperare: Le emozioni, i sentimenti, le sensazioni. Cosa provava qualcuno quando suo figlio decideva di partire e andarsi a unire a una banda partigiana? O quando invece decideva di andarsi a unire alle brigate nere?”
Alessandro Barbero
Nella storia raccontata da Mussolini non ci sono buoni. Al di qua e al di là dalle barricate, solo cani. A volte vincitori, a volte vinti, diversi nei motti, ma capaci della stessa identica violenza. Idee, ideali, convinzioni si scontrano, a qualsiasi prezzo. Così il cadavere parlante di Mussolini viene innalzato, mutilato, sballottato, smembrato, sputazzato, idolatrato, annusato, avvistato, sezionato, trasportato, trascinato, fatto cadere, e nascosto. L’essere umano diventa cimelio, simbolo, oggetto. Quando ci si fonde con un pensiero, con un’idea, è come se si smettesse di essere umani, non c’è più spazio per l’impalpabile. Di anima non si parla, non si è mai parlato. Se esiste, è già fuori dai giochi da tempo.
Benito contamina l’attore con le sue caratteristiche, che lui stesso enumera (per come le ricordo): “Sono forte, orgoglioso, sicuro, virile e insomma diciamolo – Con estrema convinzione e senso di rivincita personale – Quando c’ero io i treni arrivavano puntuali! Non come adesso che devi aspettare l’autobus 50 minuti e poi ne passano 4 di fila!” Da qui uno sfogo contro il disservizio pubblico che nei toni accesi e punitivi ricorda tanto qualche figura istituzionale a noi ben nota.
Il granitico Timpano, con italica forza, si staglia in mezzo al palco da solo e impavido, facendosi in quattro, come il corpo del duce, e riempiendo la scena stoicamente, senza mai abbandonare la posizione scelta, se non per andare in bagno, e consegnarci a un minuto di silenzio commemorativo. Così, fiero e forte, incolla l’uditorio con la sola possanza dell’interpretazione, tenendo in pugno le gremite schiere col suo solo far performativo.
Ciò non riesce comunque, sul finale, a esimere le gremite schiere da una certa, pur rispettosa, fatica; legata più alla staticità della scena e alla dovizia di particolari cui si resta a lungo sottoposti.
Lo spettacolo, molto attuale nella sua ferocia, lascia degli spunti di riflessione interessanti. Al giorno d’oggi, come si suol dire, la bagarre mediatica è in piena, e probabilmente non è destinata ad arrestarsi prima di una catastrofe.
Tutti litigano con tutti. Non puoi fare una cosa che sbagli. Se sei brutto ti tirano le pietre, se sei bello le braciole, non si capisce niente. I media, anziché far dare una calmata a tutti, gettano benzina sul fuoco, facendo spettacolo degli azzannamenti.
Molti si sono già sottratti alla “girandola delle uccisioni” iniziando a intuire come il raccontarci una storia e prendere posizione, o definire tutto, sia inevitabile caratteristica dell’essere umano, legata secondo alcuni al linguaggio. Il teatro della vita potrebbe essere già esso stesso un gioco delle parti, e il rendersene conto una salvezza. Perché la storia non si ripeta, bisogna uscire dalla storia.
C’è molto altro sotto questo mare di acido che Daniele ci fa scorrere addosso impietosamente, per svegliarci. La consapevolezza che permette all’essere umano di non lasciarsi coinvolgere dal personaggio, e di vedere la propria vita come narrazione. Il silenzio prima della forma e oltre le parole, che crea quel filo invisibile fra noi e gli altri e non può che chiamarsi amore; come quello dei baci dati dall’attore alla compagna a qualche minuto dallo spettacolo, prima ancora che il cancello si schiuda lasciando entrare il mondo, con tutte le sue voci e opinioni.
Prossimo appuntamento lunedì 5 agosto con “Uomo maturo” di Steve Cable, sempre al Cortile Teatro Festival di Messina, direzione artistica di Roberto Zorn Bonaventura.
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