Di Claudio Pellerito.
Joker. La trama di questo Joker di Todd Phillips, conosciuto e amato dal sottoscritto per la trilogia di Una notte da leoni, è apparentemente semplice, viene quasi da pensare che sia banale. La storia narra di un aspirante stand up comedian, afflitto da una malattia neurologica che gli causa accessi di risate incontrollabili, e che vive con la madre che è costretto ad accudire. Il protagonista deve fare i conti con la crudeltà della vita in una Gotham degli anni ‘80 distopica al punto giusto. I ricchi sono troppo ricchi e i poveri troppo poveri, i ratti, anzi dei super ratti, invadono la città e qualcuno suggerisce l’impiego di super gatti (qualcuno ha detto super cattivi e super eroi?).
In questa atmosfera, il futuro Joker, il cui nome è Arthur Fleck, viene deriso per il suo handicap. Viene picchiato perché prova a portare un po’ di gioia per le strade vestito da clown. È ignorato dai servizi sociali e da una madre che, purtroppo, scopriremo essere una delle cause scatenanti dei suoi problemi. Nel frattempo anche il suo idolo, Murray, conduttore di un famoso talk show e stand up comedian, si prende gioco del povero Arthur. Murray è interpretato da un De Niro che fra questo film e The Irishman sembra aver intenzione di tornare a dominare lo schermo. Tranquilli, avrà “What he fuckin’ deserves”.
Sembra banale, no? Troppo facile: un uomo già colpito da problemi psichici diventa pazzo del tutto perché la società lo evita e lo deride, e diventa Joker. Beh, niente di più sbagliato.
L’analisi di Phillips e la grandezza di Phoenix
Todd Phillips e Joaquin Phoenix spiazzano continuamente lo spettatore, a suon di citazioni delle più disparate (Taxi Driver, Re per una notte, Fight Club), colpi di scena, scene di violenta catarsi e grazie ad un’interpretazione straordinaria. Straordinaria è poco piuttosto immensa, eterna di Phoenix. Dimenticate Jared Leto, se non lo avevate giustamente già fatto, e contate fino a 10 prima di dire che Jack Nicholson e Ledger sono insuperabili, perché qui il gioco si fa davvero duro. L’attore americano fornisce la prova migliore della sua carriera, e non perché ha perso 24 chili o perché ha fatto un bellissimo lavoro sulla voce, no; guardate i suoi occhi, guardate le sue unghie e soprattutto ascoltate la sua risata, anzi le sue risate, e capirete.
Lo studio fatto su quest’ultime potrebbe da solo riassumere tutto il film. Sì perché abbiamo la risata della malattia, quella che non si può controllare, quella che nasconde il pianto e la disperazione per la propria condizione. Abbiamo la risata finta, squillante, impiegata quando le regole, le convenzioni sociali, obbligano il nostro anti-eroe a ridere (vedi la velocità con cui Phoenix torna serio dopo aver riso alla battuta sul Golf per i nani). E poi abbiamo la risata vera, quella spontanea, gioiosa, di una persona che si sta divertendo, che è felice. Anche in questo caso è usata nei momenti in cui non si dovrebbe ridere, in cui niente è divertente, se non per Arthur, come quando vede un altro stand up comedian sul palco e prende appunti sulle battute.
Joker. Uno spaccato della società americana
Malattia, convenzioni sociali, libertà di essere se stessi. Tre risate, tre colonne portanti di questo Joker. Tutto quello che per la società americana è un problema da secoli. Phillips denuncia tutto quello che c’è da denunciare: la gestione della malattia mentale, il controllo delle armi, l’accoglienza e l’integrazione, l’assistenza sanitaria, il divario tra ricchi e poveri. Per questo Joker non è un semplice cinecomic, per questo la presenza della famiglia Wayne, per quanto inserita in maniera egregia, passa in secondo pian. Joker dipinge attraverso la Gotham degli anni ‘80 l’America di oggi e di sempre, che sotto la meritocrazia ed il sogno americano nasconde tanta merda, ecco, l’ho detto.
La colonna sonora, poi, è meravigliosa, l’atmosfera cupa data dai violoncelli è in contrasto con l’utilizzo di pezzi di Sinatra, per dirne uno, che accompagnano la danza e la violenza di Arthur, prendendo spunto da un maestro di questi contrasti che è Tarantino.
Scene e costumi e dettagli richiamano alla perfezione quella atmosfera di fine anni ‘70 – inizio ‘80. Scorsese l’aveva saputa raccontare come pochi, fra il fumo delle sigarette in ogni luogo e le insegne luminose e le auto che tanto volevano copiare le forme delle Cadillac.
Conclusioni
Insomma, un cinecomic che non è più un cinecomic. Una origin story che non è più una origin story. Un cattivo che non è più (soltanto) un cattivo. Una storia che pensavamo di conoscere e che invece riscopriamo in un’ottica così diversa e spiazzante e disturbante. Phillips ha creato un piccolo gioiellino, Phoenix ha fatto un capolavoro da fargli meritare l’Oscar senza nemmeno il bisogno di altri candidati. La sceneggiatura di Phillips e Scott Silver consegna agli annali una storia che, secondo me, rimarrà per tanto, tanto tempo nelle nostre menti.
In definitiva questo Joker entra nell’Olimpo delle grandi interpretazioni cancellando per sempre le riserve che i critici hanno sui personaggi tratti da fumetti. Il Leone D’Oro a Venezia ne è una chiara dimostrazione. Cancella anche, per fortuna, l’ultimo Joker visto sullo schermo, che faccio finta di non avere mai visto.
Chapeau.