Di Lelio Naccari
Date a qualcuno una maschera e vi svelerà chi è. E così l’ibrido Ferrazzano/Provinzano c’introduce nel suo mondo – ricostruito dall’opera certosina dell’etnologo Giuseppe Pitré – spiegandoci che non sono tanto i cunti a contare, ma che questi sono solo un pretesto per trasmettere ciò che si ha dentro, nel cuore. A volte si parla del fondo dell’animo come si potesse coglierne una fine, un’identità, e fermarla. Ma nel cuore c’è la trasmissione stessa, la condivisione di un’essenza in divenire, che si trasforma come quest’opera, fatta di un repertorio di più di venti racconti di cui solo alcuni verranno estratti, secondo modalità sempre fresche.
L’attore e regista Giuseppe Provinzano ci raccoglie attorno a cunti e fiabe siciliane su un personaggio che è il contraltare scaltro del più noto Giufà. Alcuni sono più curiosi e ben fatti, altri lasciano il tempo che trovano, ma in tutto questo si vede altro e ci si chiede: Chi è la persona? Dove comincia e finisce il personaggio? Perché li ha scelti? Qual è la sua storia? Ogni azione che si compie nella vita è un modo di mettere in scena se stessi e racconta chi siamo e cosa vorremmo. Come quando si ama qualcuno.
Quando una persona si avvicina a un’altra, se si avvicina sul serio, racconta molte cose di sé che non ha raccontato mai a nessuno.
Altre gliele lascia vedere.
Quando esce dalla doccia senza infilarsi l’accappatoio.
Quando dice: mi fa male qui, ma secondo te cosa ho?
Quando mostra uno strano segno sul polpaccio e spiega che storia c’è dietro.
Oppure un minuscolo difetto anatomico di cui si vergogna a morte.
Ma non è niente dice l’altra persona, che nel frattempo ha già visto molte altre cose mai mostrate.
Però questi si chiamano segreti, sono le cose segrete che uno affida all’altro senza pensarci troppo: l’odore della pelle, il modo come fa l’amore, quella volta che è scoppiato a piangere e poi ha chiesto scusa mille volte in un’ora.
Per tutto il tempo che si vogliono bene, due persone hanno in ostaggio molte cose l’una dell’altra.
Molte cose che non sono oggetti.
— Paolo Di Paolo, Dove eravate tutti
Lo spettacolo dona il valore dello stare insieme, dell’aprire la porta agli altri per creare uno spazio comune, anche assumendosi un rischio: quello che le cose possano prendere una piega diversa dal previsto; Che gli ospiti, sentendosi “a casa propria” esagerino con iniziative personali, e che poi si debba cercare di tirarne le redini, ma è il prezzo da pagare per esserci tutti, nella varietà del diverso.
Impossibile vedere due repliche uguali
Come in un buon rito antico gli ingredienti ci sono tutti: il vestito bianco, il silenzio, l’ascolto, il semicerchio, lo spirito del vino. La figura leggendaria di Ferrazzano si staglia gigante su una Palermo antica e di carta – ideata da Petra Trombini – come quelle ritagliate da bambini con le forbici arrotondate. Qualcuno sceglie da un sacchetto un racconto, qualcun altro una o più parole che l’attore v’inserirà improvvisando. Se il gioco funziona Ferrazzano berrà un bicchiere, riportandoci a quell’immaginario da osteria, di strada, anche polveroso, fatto di sedie di legno, arnesi semplici, occhi e orecchie. Ciò che basta a creare una storia; una storia nota, come dice bene il protagonista, ma che alla fine è la storia del tempo passato in compresenza, con un’energia e un interesse comuni, orientati nella stessa direzione e ricondotti alla curiosità divertita e senza pretese dell’infanzia.
Tre donne ricevono una campanella ciascuna. Quando lo vorranno potranno suonarla e ascoltare una confessione “intima” di Ferrazzano. Le luci qui si fanno soffuse e si apre una parentesi sottovoce, si racconta un dietro le quinte del personaggio, i suoi sentimenti e anche di ciò di cui non va fiero.
Poi, la stanchezza sopravviene, anche i bambini in ascolto di furberie e bravate iniziano ad accusare i segni del tempo, e forse un po’ di fame. Il ghigno compiaciuto di Giamboi si allontana dalla finestra da cui ha seguito con occhi luminosi le gesta dell’eroe, per andare a occuparsi della cena a seguire. Uno dei bambini/adulti ha ben due campanelle, da suonare a sua discrezione. Ora le suona e tutto finisce.
Che colore vuoi?
Ferrazzano scompare nell’eco di un’eterna filastrocca, rimmergendosi nelle profondità della tradizione da cui lui stesso è emerso, pronto ad affiorare in altri luoghi e tempi, attraverso questo o altri corpi. Spirito che s’impossessa di chi gli fa posto, cunto che cunta di altri ad altri, e di sé ad altri e a se stesso.
Stanza di specchi e storie fra cui non sapremo mai se e cosa ci sia di vero; forse niente. Ma non è questo che conta. L’importante è viversi e lasciarsi guidare in un racconto, condividere un luogo e un tempo, uno star bene di carne e voce, all’indomani di un’esperienza che ci ha chiuso in scatole di metallo e trasformato in immagini di pixel.
Prima che il pubblico vada via, Provinzano lo ferma, e legge il testo che la comunità Attori e Attrici Uniti ha redatto in difesa dei tanti professionisti che ancora non possono tornare a lavorare, e di quel 70% di lavoratori dello spettacolo che fa parte di realtà non sovvenzionate.
C’è chi dice che l’artista vada affamato, forse questo ci allontanerà dai salotti dove troppo spesso siamo tentati di accomodarci, forse ritornare dalla strada alla strada ci farà interpreti di urgenze e necessità nuove ma ataviche, allontanandoci dai personali onanismi.
Senza voler giustificare una situazione di chiaro ed evidente disagio, certo è che in quel momento di lettura significativa si respira un bollore sovversivo, un’agitazione di cantina in fermento tra teatro e società, qualcosa di vivace che torna a graffiare lo specchio del tempo.
Ce ne si accorga o no, un movimento è già in corso, ed è stato anche grazie a difficoltà portate all’estremo e spesso maledette, che i professionisti dello spettacolo hanno potuto prendere atto e coscienza di gruppo, passando all’azione concreta e concertata di gesti, comunicati, simboli e piazze. Adesso gli attori e le attrici sono uniti, e sanno che devono vedersi come unità, ne va della loro sopravvivenza individuale. Non sorprende sia in seno all’arte, uno dei settori più in crisi, che emerge con chiarezza un’istanza tanto semplicemente fondamentale per l’umanità, eppure così difficile da mettere in atto.