Di Lelio Naccari
Tardo pomeriggio siculo. L’altopiano baciato dal sole è scandito da filari di vigne. L’odore zuccherino degli acini raggiunge le narici mentre si calpesta il sentiero di terra che conduce alla cerimonia sacra di un rito teatrale riportato alle origini.
Ci si siede su panche di legno; come lo è il palco, bassa pedana di assi arricciate ai margini dai dardi infuocati di Apollo, attraversata sul fondo dallo spettro arido di un albero. A centro scena, una donna coperta di tessuti neri attende, eternamente immobile. Una strega, senza volto, a lasciarci presagire l’impossibile o calamitarci nell’abisso che sarà, fatto di memoria e mistero.
Promontorio Nord – Tenuta Rasocolmo
Ci sono solo le voci, i corpi e il sudore degli artisti – senza artifici tecnici – a rendere vive le opere presentate alla rassegna “Promontorio Nord”, curata da Roberto Zorn Bonaventura presso la Tenuta Rasocolmo di Messina e giunta quest’anno alla sua IV edizione. Ogni spettacolo ha come colonna sonora la natura stessa e, alle spalle, una scenografia d’eccezione: una veduta sconfinata di mare scintillante e cielo a perdita d’occhio. Poi, sul finire dell’opera, il tramonto. A suggellare il tutto degustazioni di prodotti tipici e vini della Cantina Reitano.
Un ritorno al teatro come rito di cura e racconto, ricucitura del rapporto dell’uomo con se stesso. “Una rassegna più lenta. Un teatro no-stress” Potremmo dire. Come forse lo è un po’ l’indole del direttore artistico e le gustose cene, accompagnate dalle note del jazz e da quelle fruttate dei calici. Francesco Giostra Reitano, in una tenuta di oltre 10 ettari, ormai quasi abbandonata, ha ripreso nel 2004 quella che era un tempo l’attività agricola di famiglia, ridando nuovo splendore al promontorio di Capo Rasocolmo, dominato dall’omonimo faro.
Lavori in Corso
Lo spettacolo che quest’anno apre la rassegna è l’opera di un giovane drammaturgo messinese – di Patti – che si sta facendo apprezzare in ambito nazionale: “Casca il Vento” di Simone Corso, con in scena Adriana Mangano, Francesco Natoli ed eccezionalmente lo stesso Simone. Il lavoro, che tratta in maniera poetica ma attuale il tema dello spopolamento dei piccoli centri in favore delle metropoli, giunge qui alla sua terza rappresentazione ed è stato realizzato nell’ambito del progetto di ricerca teatrale “Il deserto e la fortezza”, reso possibile dal fondo PSMSAD di Inps, dedicato ad artisti fino ai 35 anni di età.
Si è trattato – come spiegano lo stesso Corso e il Prof. Dario Tomasello durante la presentazione del volume legato al progetto – di una vera e propria residenza/ricerca etnografica sul campo, a Novara di Sicilia, che ha visto svolgersi 17 interviste ad altrettanti abitanti del luogo, per raccogliere storie, suggestioni, punti di vista e di vita, poi rielaborati e organizzati dall’autore fino alla drammaturgia finale; messa in scena per la prima volta nello stesso teatro di Novara.
Il libro che ne racchiude il testo, edito da Giambra Edizioni, è impreziosito dalla prefazione dello stesso Prof. Tomasello e dalle illustrazioni di Andrea Sposari. Fruibile in occasione della rappresentazione anche la mostra fotografica “Lo spirito della fortezza”, realizzata dal poliedrico attore/autore/umorista/fotografo/showman/speaker radiofonico/esperto ignorante/biologo e presto fondatore di una nuova religione Giuseppe Contarini che – riprendiamo fiato – attraversando un concept, ha immortalato alcuni momenti altamente simbolici della vita e della tradizione Novarese. Insomma – come potrebbe dire lo stesso Contarini in uno dei suoi articoli – forse troppa roba tutta insieme per parlare anche dello spettacolo; ma se avete ancora un attimo di pazienza ci arriviamo.
Eppur Simone
La mortificazione di culture e tradizioni preziose in via d’estinzione a causa del diradamento forzato dovuto all’incombere della modernità, al ruggito del progresso, del tutto e subito, che lascia i piccoli centri poveri di tutto: abitanti, infrastrutture, persino sguardi e interesse. È questo fino in fondo un male? E se si, di che natura? Il progetto “Il deserto e la fortezza” è ispirato nel suo cuore dal romanzo “Il deserto dei tartari” di Dino Buzzati – opera di cui quest’anno ricorrono gli 80 anni – e dalle esperienze personali del drammaturgo, che si è visto, nel tempo, sempre più sfuggire di mano affetti e amicizie, in esodo verso lidi considerati più lustri e prolifici rispetto alla sua terra, e di cui egli stesso è stato infine protagonista, essendosi recentemente trasferito al nord.
Nel lavoro, il vento sembra metafora di quello spirito imponderabile che vi è nell’aria dei luoghi minuti e antichi; dello Spirito in sé, quel genius loci che cambia le carte in tavola, incrocia e separa destini, gestisce la storia da dietro le quinte, scoperchia e ribalta. Può far volare cappelli e scompigliare i capelli, per poi cadere di colpo ed eclissarsi, lasciandoci con lo strano dubbio che sia davvero successo qualcosa o fosse tutto solo un sogno. Restano memoria, suggestione e turbamento, mentre fuori da quella dimensione unica e isolata – come sono questi centri in via d’abbandono – il moderno continua a esplodere inseguendo efficacia, corrodendo la poesia tra i fumi del dovere, del potere, o solo del tirare a campare.
Eppure, nonostante tutto, qualcuno è come trattenuto in questi posti da una forza oscura, una malia soggiacente, un’eco di probabile natura femminea, come la magia delle streghe medievali che si dice popolassero Novara; voce di sirena che trattiene a sé anche se si vedono tutti gli altri partire, anche se si è gli unici a rimanere, e si passa il tempo ad aspettare che l’amico o il visitatore di turno facciano ritorno. Un esilio volontario di gironi uguali, trascorsi a sedere nei punti di ritrovo o nelle viuzze, soli o sfortunati agli occhi di chi ha preferito tuffarsi nelle corse del mondo, ma portatori di un rapporto più sincero con la realtà e con il mondo, un placido ascolto fatto di lentezza e sacralità quasi perdute.
Patatine al pepe rosa
L’opera fonde un aspetto storico e poeticizzato a una prospettiva più moderna, che ci prende piacevolmente in contropiede e, anche dal punto di vista interpretativo, riesce a far dimenticare la scrittura. Impoverimento, abbandono, perdita di legame col passato e memoria, diradamento del tessuto umano e sociale, assenza di arterie che pompino sangue a questi cuori antichi, utopisticamente a metà fra il rudere e l’ostinata resistenza. “A me non interessa stare nella città – dice iconicamente un amico all’altro al bar, mentre sorseggiano birra Messina e sgranocchiano patatine al pepe rosa – Nella città sono un numero. Qui invece sono Gianni.”
Quali sono le cause e quali gli effetti nella dialettica deserto/fortezza, vecchio/nuovo? Si può essere ancora capaci di un ritorno alle origini e a se stessi, che sia antico e vitale al contempo? Non semplice e ottuso eremitaggio, né scelta forzata tra il dimenticarsi nel nulla o il dissolversi nel frenetico tutto? Si può ancora sentire la voce del vento?
Questa una delle toccanti questioni con cui ci lascia lo spettacolo, cui nessuno potrebbe dare risposta se non chiedendo a se stesso, ritirandosi un momento fuori dal flusso, dalle convinzioni e dai pensieri indotti, e ricamando un brandello di prezioso silenzio.
Il canale youtube del progetto “Il deserto e la fortezza”, con le sintesi video dei giorni di residenza: