Di Lelio Naccari
Il 19 e 20 luglio per Cortile Teatro Festival a Messina è apparso “La vita ha un dente d’oro”. Lavoro eccellente prodotto e messo in scena da Claudio Morganti su un testo di Rita Frongia, sul palco Francesco Pennacchia e Gianluca Stetur.
La vita ha un dente d’oro è un’antica espressione bulgara che non trova corrispondenza idiomatica nella nostra lingua. Oggi l’espressione non è più in uso ma pare venisse utilizzata per alludere al fatto che in tutto ciò che è vero c’è sempre un artifizio, una menzogna, un’alterazione d’organi. Ma è anche vero che le cose, a volte, sono proprio come sembrano.
(Dalla pagina dello spettacolo)
Qualsiasi cosa si possa dire su quest’opera non basta. Come sostiene uno dei due attori (o personaggi?) “Più parlo me no mira presento”. Uno spettacolo che non ha bisogno di perché, parte già da oltre, dall’irrazionale, senza intellettualismo. Danzando sul gioco, attinge alla libera schiavitù della presenza. Si deve cogliere la bellezza, cercarla, invitarla a sedersi sulle nostre ginocchia, parlarle. Il cervello decolla e resta in un’altra dimensione. Forse non proprio tutti hanno il paracadute per atterrare qui.
Teatri
Il pubblico entra e si siede. Stetur è in piedi in scena. Gironzola. Non si sa se stia facendo qualcosa oppure nulla. Non si sa se si può davvero fare nulla. Ora entra Pennacchia. Siedono al tavolo, le luci si alzano, sembra un inizio. Si muovono. In prima fila, la moglie di un venerando critico domanda al marito: “Ma tu li conosci a questi?”.
“No.” risponde lui, come fossero in salotto. Bisbigliano ancora qualcosa. Gli altri due intanto, quelli in scena, fingono di cominciare un gioco di carte. “Saranno caxxi loro!” chiosa la donna. Non le si può dar torto, quale che fosse l’argomento.
Le persone optano per lo più per lo spettacolo sul palco, dopo i primi istanti realizzano di non dover capire nulla e tutti ci rilassiamo. Si comincia a ridere, esorcizzando ansia di vivere. Si coglie il senso della vita: nessuno. Ma tanta poesia. Non male al costo di un biglietto più cena. Ce lo dimenticheremo tutti fra un’ora circa. Ancora risate.
Il critico gira la testa indietro sul pubblico un po’ di volte. Lui e la compagna sono gli unici a non sghignazzare. Sta per scorgere anche me, che ho un sorriso ebete stampato sul volto. Lo spengo subito, perché essere tristi è più professionale. Non deve essere facile vedere tanti spettacoli, troppi.
I due umani sul palco intanto vanno avanti e poi ritornano indietro, sembra parlino ostrogoto: stanno frequentando il vuoto, la massima sorgente di creatività. C’è maestria in questo caos organizzato, e una grande lucidità. Essere presenti è non tirare e non spingere, stare.
Ingredienti genuini del teatro diventano centrali: energia, tempo, ritmo, relazione. Gli stessi della comunicazione e della vita, si direbbe. Chi se ne accorge è un attore. Come quando si scopre di essere illuminati: lo si era sempre stati ma lo si ignorava.
Attimi
Si dice che gli ultimi saranno i primi. Sembrano ultimi i due esserini chiusi in questo limbo, un po’ il bianco e l’augusto – intrappolati nella vita – un flusso inesauribile di situazioni, dove la forma diventa il contenuto. Il lavoro è il primo della “trilogia del tavolino” di Rita Frongia, che l’autrice racconta così:
“Desideravo parlare di morte ridendo molto. Sono commedie con due attori, un tavolino e nessuna musica. Ho ridotto l’apparato e concentrato il fuoco su ciò che accade lì per lì, attimo per attimo, fra gli attori in scena. (…) La trilogia voleva sconfiggere la morte. Nel frattempo sono invecchiata, ora ci voglio dialogare.”
L’opera si auto-paragona semi-seriamente, al taglio nella tela di Fontana. Sembra possa farlo chiunque, ma non è nel taglio/testo il valore, bensì nel gesto, che supera l’opera.
“Come drammaturga creo dei giochi, come regista provo a farli funzionare in attesa che i fatti travolgano le idee.” Componendo copioni che “istigano all’improvvisazione” si lascia al teatro la possibilità di andare all’essenza e farsi contenitore e contenuto. Gioco di specchi che volendo significare il ritmo e il gesto, corrisponde meglio alla danza della vita, accogliendo il presente. Dice Claudio Morganti sulla collaborazione con Rita:
“(…) Si individua insieme un percorso e poi si scambiano parole, molte, per definire una linea teorica. Quanto più sarà dettagliata tanto più sarà necessario farla scivolare via, dimenticarla, per poter cominciare da un grado quanto più prossimo allo zero il lavoro vero, quello necessario per far sì che le prove non siano tese alla definizione, ma alla costruzione di un campo di gioco.”
Cos’è questo non voler piegarsi al vento?
La dimensione dei due attori sul palco è a loro intima, cucita sui loro attimi e respiri. Ogni tanto, per qualche tempo comico o ammiccamento troppo giusti si potrebbe pensare ad Aldo, Giovanni e Giacomo, ma sono brevi frangenti, poi tutto sparisce in qualcosa di creativamente più alto e stimolante. Comunque una risata è già un bel dono.
Si cade all’indietro, dalle risate e pure in se stessi, trascinandosi fuori dal bizzarro spazio del teatro l’eco di un sogno. Frequentazione dell’irrazionale, territorio in cui veniamo delicatamente adagiati dalla nascita, occupandoci di tutto poi, fuorché di riconoscerlo. Così si fugge in mille affanni come quel cane grigio, con la paura della tristezza, senza più abbandonare la recita. Questo teatro diventa allora luogo del ricongiungimento per sottrazione, del ritorno a se stessi, religione.
“Gli uomini, hanno paura di abbandonare le loro menti, perché credono di precipitare nel vuoto, senza potersi arrestare. Non sanno che il vuoto non è davvero vuoto, perché è il regno della via autentica.”
Huang Po
Paradossi
È davvero poco quello che si può scrivere su quest’opera, il più grande plauso sarebbe stare zitti, e intanto continuano a sgorgare parole. Del resto parlano anche gli attori personaggi in scena: Esistere crea dinamismo. Dal niente si produce tutto. “Per definire il nulla occorrono molte parole.”
Il nonsense non è mancanza di senso, ma negazione dello stesso. Parte da qualcosa di riconoscibile per smantellarlo. Ha di per sé un potenziale a prescindere: Mostra che la comunicazione e il fatto sono la stessa cosa, che lo siamo anche noi come persone, dal primo sussulto, non appena registriamo l’io.
Sotto e insieme alle persone però, c’è altro: Non siamo sulla scena, siamo la scena. Chi può sentirlo e accettarlo torna santo come un bimbo. Un non spettacolo che apre il terzo occhio. Quello che ciascun attore dovrebbe avere. Esserci e non esserci. L’arte della leggerezza.
Siamo forse più che ginepri?
Credit photo: Giusppe Contarini – FotoinScena