Di Lelio Naccari
19 Luglio, Palacultura. Una lunga e ordinata fila, autocertificazione alla mano, giunta probabilmente da ben oltre Messina per ascoltare il PAOLO FRESU TRIO in questo inizio di Horcynus Festival.
Il tema di quest’anno è “Jamal”, la bellezza. Cosa sia esattamente non si sa. X źďGli uomini se lo chiedono dalla notte dei tempi, c’è chi dice sia bello ciò che piace, chi che la bellezza sia negli occhi di chi guarda o, come in questo caso, nelle orecchie di chi ascolta. Perché il jazz piace, ma per apprezzarlo fino in fondo ci vuole un minimo di educazione, allenamento. Quello che forse chi scrive non ha. Ma il pubblico per fortuna è eterogeneo, e certamente contento di poter festeggiare insieme ai propri beniamini uno dei ritorni della cultura negli spazi a essa preposti.
Alone Together
Di aria ne passa tanta, in mezzo, fra musicista e musicista, fra papà e figlia, tra fidanzato e fidanzata, tutti debitamente distanziati e fa un po’ strano, perché si vorrebbe stringere a sé, in quei momenti in cui le note trasportano, fanno sognare e anche un po’ commuovere, almeno chi si ama. Fresu è accompagnato da due musicisti siciliani di grande talento: Dino Rubino al piano e Marco Bardoscia al contrabbasso, mentre naviga in mare aperto al comando dell’immancabile tromba.
Il progetto che presentano, “Tempo di CHET” continua la vita di un biopic teatrale prodotto dallo Stabile di Bolzano e dedicata al grande jazzista Chet Baker. Lo spettacolo ha sfiorato le 150 repliche in tutta Italia nel giro di due anni e, una volta conclusosi, ha lasciato il trio col desiderio di continuare a portarne in giro almeno l’essenza: la musica. Senza scenografie, senza gli attori ma con un supporto scenico suggestivo per quanto minimale, fatto di sapienti e avvolgenti giochi di luce e poliedriche invenzioni visive.
Al centro il contrabbasso, unico strumento verticale, come a voler tracciare una linea fra la terra e il cielo. Ai due lati l’orizzontalità a esso rivolta del pianoforte e della tromba. Un incrocio di piani che si toccano, a volte si mescolano per poi ridividersi, si sfiorano dando l’illusione di separarsi verso mondi diversi per poi ricongiungersi, scontrarsi e incontrarsi a tratti, scappare, scorgersi, rincorrersi.
Tutto è cucito ad arte con maestria e soprattutto, poesia. Ma che cos’è questa poesia? Difficile definirlo, davvero. Per Paolo Fresu, insignito a fine concerto con il Premio Horcynus Orca 2021, la bellezza è una relazione dinamica, in divenire, un equilibrio tra brio, romanticismo ed emozione, da riscoprire ogni volta come fosse la prima volta. Come quello che nasce tra artista e artista, ma anche fra amico e amico, fra donna e uomo, denso di umanità.
Nel profondo di un sogno
È soprattutto una grande umanità che traspare dall’essere umano Fresu, che presentando i brani del progetto e chiedendo un applauso finale al pubblico in nome dei tecnici e delle maestranze – che fanno sì, da dietro la quinte che l’arte continui a esistere, e quest’anno se la sono vista davvero brutta – tiene il microfono sul petto con mani ora umili quanto prima abili, e parla con voce bassa, tranquilla, mai sopra le righe, mai altisonante.
Il jazz più che un genere musicale è un’atmosfera, che trascende gli strumenti e gli artisti e contamina il luogo, i cuori, le menti. Ci vuole un minimo di educazione, quella che purtroppo, spesso, non viene fornita accendendo la tv, che invece reclama attenzione, vuole essere vista, ascoltata, deve intrattenere e colpire. Il jazz invece non viene cercarti, bisogna volerselo ricamare quell’attimo, coltivare un’atmosfera.
Rallentare, assaggiare fino all’ultimo sussurro, per portarsi a casa la scia di un sogno, imparare a coltivare il tempo dell’ascolto, la magia della relazione, la suggestione, soggettiva e mutabile, della bellezza.