Di Caterina Mortillaro
Da quando il viaggio è diventato un fenomeno di massa, si è affermata l’idea che viaggiare sia una tappa necessaria nella vita di ciascuno. Vera e propria panacea contro i mali del razzismo, apriscatole per le menti più ottuse, viene proposto in tutte le salse.
Non c’è una casa in cui non venga ostentato un souvenir più o meno pacchiano che attesti in modo inequivocabile che il padrone di casa “è stato là”, per dirla con l’antropologo Clifford Geertz. E non parliamo delle foto sui social, che mi ricordano tanto quelle ironiche del “Fantastico mondo di Amelie”, con il nano da giardino immortalato davanti ai principali monumenti mondiali.
Gli uomini da sempre viaggiatori
L’uomo ha viaggiato in ogni epoca, dalle grandi migrazioni in cerca di cibo e migliori condizioni di vita, ai viaggi commerciali, ai pellegrinaggi. I chierici vaganti lo facevano per studiare (o per sfuggire alla vita nella bottega o nello studio legale di papà), i soldati per fare la guerra. Chilometri e chilometri macinati di solito a piedi, tutt’al più a cavallo o su bagnarole di legno col timore costante della tempesta. Niente poteva fermarli.
Ulisse, come sappiamo, è il simbolo universale del viaggiatore divorato dalla curiosità. Pochi, però, ricordano che, almeno inizialmente, Ulisse è un viaggiatore riluttante, che desidera solo andare a casa al più presto. Strappato a Itaca, alla moglie, al figlio per fare la guerra ai Troiani, non vede l’ora di ritornare. È l’eroe della nostalgia, che in greco significa “il dolore del ritorno”.
Tra viaggi iniziatici e inquietudine
Già dall’antichità assistiamo all’accostamento tra viaggi e crescita personale. I pellegrinaggi e i viaggi iniziatici promettono guarigione, rinascita, metamorfosi interiore. Più sono disagevoli meglio è. Le piaghe ai piedi durante il cammino di Santiago, le pulci prese in un ashram, la dissenteria sono i segni dell’avvenuto cambiamento. Sacrifici rituali sull’altare del viaggio.
Filosofi come Seneca paragonano la vita a un viaggio. Ma mettono, altresì, in guardia contro l’inquietudine che spinge le persone a muoversi continuamente, come il malato che si rigira nel letto. Sempre Seneca ammonisce: “Animum debes mutare, non coelum”, che significa: “Devi cambiare il tuo animo, non il cielo sotto cui ti trovi.” La critica di Seneca dimostra come già al tempo dei Romani fosse scoppiata la febbre del viaggio, sintomo di un’inquietudine profonda.
Ma il cambiamento interiore è un lavoro faticoso, quotidiano. Più facile fare la valigia, prendere un aereo, perdersi tra i vicoli di qualche città straniera. Qui si spera di placare i moti scomposti dell’animo.
Dal Grand Tour al turismo di massa
Fino al XX secolo viaggiare per diporto era un lusso. I giovani aristocratici facevano il Grand Tour. Partivano per uno o due anni e visitavano i principali paesi europei. Una specie di rito di passaggio nel quale, liberi da ogni responsabilità, esploravano luoghi, culture e piaceri diversi. Al ritorno avrebbero preso il loro posto nella società, forse più raffinati, forse più razzisti e convinti della loro superiorità.
Nell’epoca delle compagnie aeree low cost, tutti o quasi hanno la possibilità di viaggiare. Le differenze tra ricchi e poveri si giocano in termini di comodità o di mete più o meno esotiche, oltre che, ovviamente, di durata del viaggio stesso. Per ribadire il proprio privilegio il ricco deve spingersi negli angoli più remoti e inesplorati del pianeta o concedersi vacanze a cinque stelle inarrivabili per l’uomo comune, stipato su aerei che somigliano sempre di più ad autobus sgangherati.
Anche oggi, però, a dispetto dell’opinione comune, invece di aprire le menti, il viaggio può rafforzare l’etnocentrismo e il razzismo. Ecco perché.
La logica colonialista e l’esotismo
Fin da quando l’essere umano ha cominciato a viaggiare si sono affermate due tendenze. Alcuni si compenetrano nelle culture altre, decentrano lo sguardo, come diceva il grande antropologo Ugo Fabietti. Altri trovano conferma ai loro pregiudizi. In visita al villaggio africano, non scoprono un nuovo modo di approcciarsi alla vita, non vedono la bellezza dell’arte indigena, non sperimentano un sentimento di fratellanza universale. Notano solo la povertà e la sporcizia; giudicano i ritmi africani con il metro del milanese sempre di corsa.
Questo pericolo c’è sia per i viaggiatori mordi e fuggi, sia per chi si stabilisce all’estero, come dimostrano molti studi antropologici. C’è alla base una logica colonialista, che colloca i popoli in arbitrarie classifiche di valore. Espressione di pregiudizio colonialista è anche la ricerca dell’esotismo e dell’autenticità. Questi viaggiatori inseguono un’idea preconcetta del paese da visitare, cristallizzata in un passato mitico, e restano delusi se non la ritrovano. Ogni forma di modernità li disturba.
Prendiamo l’esempio dell’India. Nell’immaginario deve essere un paese povero e sporco, con una grande spiritualità. Così, però, resta in ombra la sua potenza industriale, la ricchezza delle classi più elevate, le forme di materialismo. Frotte di viaggiatori partono zaino in spalla alla ricerca spasmodica dell’albergo più schifoso, con gli scarafaggi più grossi; si fanno abbindolare dal guru di turno e tornano con la convinzione di aver capito tutto quando non hanno capito nulla.
Il viaggio come diritto inalienabile e rito di passaggio
Si crea così un mito del viaggio come diritto inalienabile e rito di passaggio necessario. Fioccano blog e meme su viaggiatori che hanno lasciato tutto per andarsene in giro per il mondo con lo zaino spalla. E viene disprezzato chi resta a casa o per mancanza di denaro o perché impegnato in (noiose) attività produttive, o ancora perché non ama spostarsi. È un idiota, un codardo, un fallito.
Partire! Ecco l’imperativo. Poi però si scoprono le facce oscure di questo fenomeno. Gente che va all’estero per fare i suoi porci comodi: turismo sessuale, vita da colonialisti ecc. Veri predatori di vite, risorse, tradizioni culturali, arte. Il più delle volte in paesi poveri. E non parliamo dei danni ambientali: paesi sfigurati dal turismo, economie locali stravolte con danni per le popolazioni.
Viaggiatori fai-da-te con i genitori notai e immobili che danno in affitto a prezzi da strozzo per potere fare il loro Grand Tour.
Begpackers, i peggiori: chiedono l’elemosina con le loro facce da bravi ragazzi occidentali per poter proseguire l’eterno viaggio nel disimpegno. Altrimenti come potrebbero ubriacarsi in un bordello di Bangkok o farsi le canne a Goa? A casa, orrore degli orrori, dovrebbero studiare o lavorare.
Che importa se sottraggono risorse a paesi dove la fame c’è davvero?
Il viaggio che fa bene
Con ciò non voglio dire che viaggiare sia il male assoluto. Tutt’altro! Dopotutto sono un’antropologa. Il viaggio per noi è quasi una religione. È un’occasione ottima per arricchirsi culturalmente, per decentrare lo sguardo, ma solo se compiuto con lo spirito giusto. Nel rispetto delle altre culture e usanze, dell’ambiente e di se stessi. Accettando che i propri pregiudizi vengano scardinati. E, se del caso, pronti ad accogliere un se stesso stanco, desideroso della pace domestica, in una parola nostalgico di casa. Non c’è nulla di male in questo.
Se manca un tale atteggiamento, meglio starsene a casa.