Piccola telecronaca di un incontro con un giornalista di Rete4
Di Paolo S. Cavazza
Il Salone del Libro di Torino è un luogo dove tutti i mondi si incontrano: un vortice di eventi imperdibili, presentazioni lungamente attese, incontri casuali, appuntamenti falliti, lunghissime code; un calderone dove è facile smarrirsi e lasciarsi sopraffare dalla stanchezza, che quest’anno è accentuata dagli spazi ulteriormente dilatati della nuova planimetria, che include l’Oval al posto del Padiglione 5 del Lingotto.
Come tutti sappiamo l’apertura del Salone è stata preceduta dall’intensa polemica sulla presenza di AltaForte Edizioni, una piccola casa editrice contigua a CasaPound. L’esclusione dal Salone dopo alcune dichiarazioni del titolare, evidente apologia di fascismo, ha temporaneamente calmato gli animi, ma certo avrà degli strascichi futuri.
Uno degli eventi più importanti del Salone sul tema del fascismo di ieri, di oggi e di sempre, si è svolto venerdì 10 maggio, nel pomeriggio nella Sala Rossa: l’incontro “Che cosa è il fascismo?” con la partecipazione di Francesco Filippi (autore di Mussolini ha fatto anche cose buone), Mimmo Franzinelli (Fascismo anno zero), Claudio Vercelli (Neofascismi), Michela Murgia (Istruzioni per diventare fascisti) e David Bidussa, curatore della raccolta di testi mussoliniani Me ne frego. È stata una conferenza a più voci illuminante e inquietante, che ha dato una visione nitida del baratro culturale e politico in cui rischiamo di sprofondare.
Prima dell’incontro, durante la lunga attesa dell’apertura della Sala Rossa, c’è stato un episodio niente affatto marginale: un intervistatore e un operatore di Rete 4 hanno cercato di provocare i visitatori in coda con domande capziose. Li avevo notati mentre discutevano con un signore a qualche metro da me; poi si sono rivolti nella mia direzione. Quando hanno detto di essere di Rete 4 li ho guardati con maliziosa curiosità, diventando il loro prossimo bersaglio. Non sapevano di avere di fronte un appassionato di storia del XX secolo, altrimenti avrebbero girato al largo.
Il dialogo si è svolto pressappoco così.
“Per lei, che cos’è il fascismo?” chiede l’intervistatore mettendomi sotto il naso un grosso microfono con una vistosa cuffia antipop (magari pensa di incutere rispetto perché ce l’ha così grosso).
La mia è una risposta da manuale: “È una ideologia politica, di tipo autoritario, che si è affermata in Europa negli anni ’20 e ’30 del ventesimo secolo.”
“E che cosa ha provocato?”
“Essenzialmente, ha provocato la Seconda Guerra Mondiale”.
Segue una mia puntualizzazione sulle differenze tra fascismo e nazionalsocialismo, del quale al giovane intervistatore probabilmente non importa nulla, perché prosegue la sua scaletta chiedendomi: “Lei è d’accordo sull’esclusione dell’editore AltaForte dal Salone?”
“Sì, certo, dato che l’editore ha rilasciato dichiarazioni che erano una chiara apologia del fascismo. La sua presenza era incompatibile con i temi di quest’anno, fra cui il centenario della nascita di Primo Levi.”
“Non è una forma di fascismo anche averli esclusi dal Salone?”
“No, dato che l’apologia di fascismo è un reato penale.”
“Ma non sarà che il problema era che hanno pubblicato un libro su Salvini?”
“Diciamo che pubblicando un libro intervista con Salvini hanno cercato di darsi un’aria più ufficiale e maggiore visibilità. Erano presenti anche l’anno scorso, ma nessuno li aveva notati.”
“Quindi il problema è il libro su Salvini?”
“Perché cerca di farmi dire qualcosa che non sto dicendo?”
Di fronte al mio sguardo di divertito compatimento l’intervistatore cambia tattica. Da sotto un programma del Salone e altre carte tira fuori una copia del Mein Kampf, pubblicata da Edizioni Clandestine. “Questo libro l’ho comprato qui al Salone. Non è apologia del nazismo?”
“Assolutamente no. Questo è un documento storico. È il libro che Hitler scrisse mentre era in galera nel 1925. Se è una edizione critica annotata non può essere considerata apologia o celebrazione del nazismo.”
Sfoglio il libro. Nessuna prefazione, nessun commento; c’è solo qualche nota storica sul Trattato di Versailles.
“Questo è il Mein Kampf naturale”, dice l’intervistatore, che probabilmente a scuola non andava molto bene in italiano. Gira il libro e mi indica una nota sulla quarta di copertina. Leggo una frase che parla di “testo altrimenti introvabile” e commento: “Questa è una falsità. Il Mein Kampf è stato continuamente ristampato da piccoli editori ed è facilmente reperibile.”
Lui mi indica un’altra frase secondo la quale si devono conoscere le posizioni dell’altra parte prima di poterle discutere e confutare.
“Lei è d’accordo su questo?” mi chiede con aria furba.
“No” rispondo con sicurezza. “Il giudizio storico sul nazismo è ampiamente consolidato. Per condannarlo non è necessario conoscere in dettaglio le sbrasate del giovane Hitler.”
Il grosso microfono cala sensibilmente. L’intervistatore si è reso conto che da me non caverà un ragno dal buco. Un attimo di esitazione, poi: “Va bene. La ringrazio.”
“Grazie a lei” rispondo tranquillamente. E mentre le persone accanto a me mi guardano sorridendo, l’intervistatore, l’operatore e un altro personaggio dall’aria di gorilla, che probabilmente ha lo scopo di proteggerli dalla folla pericolosamente antifascista del Salone, si allontanano lungo la coda, che ormai è lunga parecchie di decine di metri, alla ricerca di qualche altra vittima.