Di Marco Albè.
PCd’I e fascismo. Potremmo paradossalmente definire gli eventi politici italiani, alla svolta del primo ventennio del ‘900, come caratterizzati dall’assenza di una vera rivoluzione e dall’oppressiva presenza di una fasulla.
Alla nascita dei grandi movimenti di massa dell’immediato dopoguerra l’organizzazione che avrebbe dovuto orientarli e guidarli, il Partito Socialista, era ormai avviato al pieno compimento della svolta socialdemocratica. Era lacerato dalle divergenze tra la minoranza rivoluzionaria di Bordiga e Gramsci, da quella ultrariformista di Turati e dalla maggioranza massimalista di Serrati e Lazzari.
Di fronte ai fatti del 1920 (gli scioperi torinesi della primavera, e poi la più ampia occupazione delle fabbriche a settembre) le decisioni del partito furono l’attendismo e la rinuncia ad ogni volontà di trasformare la lotta in corso in un movimento rivoluzionario. La stessa direzione fu presa della sua emanazione sindacale, la CGdL, allora a direzione essenzialmente turatiana.
Le contraddizioni del PSI
La maggioranza del PSI nascondeva la propria incapacità di agire coerentemente (e soprattutto la sfiducia e la ripulsa nei confronti di una lotta orientata alla presa del potere) dietro l’esigenza di tenere unito il partito evitando scelte draconiane. Il Partito Socialista non riuscì a prendere una posizione chiara di fronte ai lavoratori in lotta, che chiedevano direttive politiche e strategiche.
In realtà, la linea politica della dirigenza del PSI era già decisa da tempo. L’intento era quello di approfittare degli eventi per aumentare la consistenza numerica e l’influenza del partito in una prospettiva che non andava oltre quelle del parlamentarismo borghese. Sebbene si proclamasse di voler “approntare tutte le forze dell’assestamento socialista” (come scrisse Serrati stesso nell’ottobre 1920) per una “opera di rincalzo della rivoluzione“, si trattava oramai di una rivoluzione rinviata sine die.
PCd’I: nascita
L’abbandono a se stesso di un movimento operaio forte e disposto alla lotta e il conseguente fallimento del “biennio rosso” provocarono la reazione dei rivoluzionari e la scissione del ’21 a Livorno, che portò alla nascita del Partito Comunista d’Italia. Il partito fondato da Bordiga e Gramsci, era però guidato da Bordiga, viste le già non buone condizioni di salute di Gramsci.
Il neonato e minoritario PCd’I, si trovò di colpo nella necessità di porsi alla guida della lotta di classe in un contesto complesso e difficile. La maggioranza dei lavoratori era però ancora legata al PSI. Su questioni strategiche fondamentali come questa e sull’opposizione alle violenze fasciste, i quadri erano divisi, avendo idee diverse.
PCd’I: la visione di Gramsci
Gramsci e la Terza Internazionale ritenevano che per portare avanti con successo questi compiti del PCd’I, fosse innanzitutto necessario costituire un fronte unico con tutti i movimenti, i sindacati e i partiti. Il compito era di esprimere le esigenze e le lotte dei lavoratori. L’auspicio era che le masse confrontassero le capacità di tutti questi movimenti nella prassi della lotta quotidiana. Così facendo, sarebbero naturalmente state conquistate dalla superiorità dell’analisi e dei metodi del PCd’I.
L’analisi di Bordiga
Dalla altra parte, la corrente di Bordiga rifiutava questa idea, ritenendo il PSI ormai in crisi e anzi (confondendo le reazioni dell’avanguardia dei lavoratori con quella della maggioranza della classe). Pensava che solo una forte e decisa differenziazione del PCd’I dal PSI ne avrebbe finalmente svelato alle masse tutta l’inadeguatezza. Il fascismo, sottovalutato, poi venne considerato da Bordiga un’espressione della borghesia non troppo diverso dalla socialdemocrazia. Un avversario ovviamente, ma non peggiore del PSI e che presto sarebbe rientrato nell’alveo della democrazia parlamentare borghese. Fu un gravissimo errore di valutazione.
Bordiga trascurò proprio quella situazione di urgenza e di instabilità prerivoluzionaria che aveva spinto la borghesia a utilizzare una simile organizzazione criminale per la difesa dei propri interessi. Sottovalutò una situazione che un partito nato per difendere i diritti dei lavoratori super-sfruttati e dei più deboli, come il PCd’I, avrebbe dovuto saper cogliere a proprio vantaggio.
Purtroppo all’epoca, per una serie di motivi organizzativi, la maggioranza della direzione era bordighista, e questa linea prevalse, con una serie di gravi errori che portarono alla tragica conseguenza della dittatura fascista che oppresse il paese e condusse a una guerra catastrofica.
L’affermarsi del fascismo
La mancanza di una vera mobilitazione delle forze di sinistra generò la farsa, ovvero la “rivoluzione” fascista, come il fascismo amava definire la passeggiata a Roma di Mussolini (accolto a braccia aperte dal re e dalla grande borghesia terrorizzata dai movimenti rivoluzionari di mezza Europa).
Fece seguito la tragedia di innumerevoli aggressioni, devastazioni e omicidi (da Palazzo d’Accursio a Bolzano, da Roccastrada a Casignana, dalla strage di Torino al delitto Matteotti). Le aggressioni furono finalizzate ad eliminare le organizzazioni dei lavoratori, da parte di un movimento sin dalle origini reazionario e privo di autocoscienza, nato a esclusiva difesa degli interessi del capitale borghese e dell’aristocrazia.
I fascisti riuscirono a sfruttare la paura e l’invidia della piccola borghesia, del sottoproletariato e di quanti nella tragedia della Grande Guerra avevano perso lavoro e salute. In assenza di una seria proposta di riscatto di classe, costoro seppero soltanto asservirsi ancora più vilmente ai poteri egemoni. La grande borghesia li aveva ingannati e defraudati portandoli al massacro nelle trincee per il proprio profitto.
Forse, molti di questi ignoranti credettero di aver compiuto un atto politico innovativo. Spiegò invece Gramsci: “Per la grande borghesia, per i mandanti, la “rivoluzione” fascista fu solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro“.
Valutazione approssimativa e che condusse alla catastrofe del ventennio della dittatura di Mussolini e alla complicità del DUX con gli orrori storicamente non revisionabili del nazismo.
Il fallimento della rivoluzione comunista in Europa
Il fallimento dei tentativi rivoluzionari in Italia e in Europa costrinse poi l’Unione Sovietica a un’ulteriore chiusura difensiva. Tale situazione agevolò gli elementi più retrivi legati alla burocrazia. Stalin cercò di consolidare il proprio potere tradendo di fatto lo spirito della rivoluzione sovietica e deformandola in una tirannia sulla classe lavoratrice.
L’affermazione della politica intrinsecamente controrivoluzionaria fece abortire ogni tentativo di globalizzazione delle lotte e di vera mobilitazione di classe.
I lavoratori di tutto il mondo vennero così lasciati in balia di repressioni sanguinose. L’ascesa dei regimi autoritari fu a quel punto inevitabile. Il resto è storia. Una storia fatta da un enorme spargimento di sangue e di terrore.