Di Paolo S. Cavazza
In questi giorni ricorre il quarantacinquesimo anniversario di un evento che forse oggi pochi ricordano: la prima condanna penale di Ultimo Tango a Parigi. L’odissea giudiziaria del film di Bernardo Bertolucci era iniziata quasi due anni prima, con il sequestro del 30 dicembre 1972, la cui motivazione era “per l’esasperato pansessualismo fine a se stesso”. Il regista fu assolto in primo grado il 2 febbraio 1973, condannato in appello nel giugno seguente (ma la sentenza fu annullata per vizio di forma) e nuovamente condannato il 20 novembre 1974. Poi una sentenza della Cassazione, il 29 gennaio 1976, condannò a due mesi di prigione con la condizionale il regista, il produttore Alberto Grimaldi, lo sceneggiatore Franco Arcalli e il protagonista Marlon Brando, e decretò – provvedimento inaudito – la distruzione di tutte le copie esistenti del film.
Alla furia iconoclasta della magistratura sfuggirono alcune copie poi conservate nella Cineteca Nazionale (una fu nascosta dallo stesso regista) il che permise, parecchi anni dopo e in un clima più disteso, di proiettare nuovamente il film nelle sale e, in una versione edulcorata, perfino di trasmetterlo in televisione. Nel frattempo Bertolucci era stato anche condannato per offesa al comune senso del pudore e privato dei diritti politici per cinque anni.
Tribunali e sentenze: le molte contraddizioni della censura
Ciò che rende esemplare e al tempo stesso paradossale la vicenda di Ultimo Tango è il fatto che il film avesse passato quasi indenne l’esame della commissione di censura statale, alla quale dovevano essere sottoposti tutti i film destinati alla distribuzione nel normale circuito cinematografico. Nei primi anni ’70 del secolo scorso si era creata una situazione davvero singolare: la commissione statale approvava, magari con piccoli tagli concordati con il regista e il produttore, film che poi venivano sequestrati dai magistrati locali, pochi giorni dopo la prima proiezione in pubblico, per i reati di oscenità e di oltraggio al pudore.
La storia della censura cinematografica nell’Italia del dopoguerra è ricca di queste situazioni paradossali, favorite da una normativa confusa e contraddittoria. Viene narrata con abbondanza di dettagli in Visioni Proibite, opera in due volumi di Roberto Curti e Alessio Di Rocco pubblicata da Lindau. Una storia che inizia nel 1947, con la legge che istituì le commissioni alle quali spettava esaminare i film e concedere il nulla osta alla proiezione pubblica. La legge però non abrogava completamente le norme precedenti, e lasciava ampio margine di discrezionalità alle commissioni, delle quali, non casualmente, facevano parte ex-funzionari del Minculpop, il famigerato Ministero della Cultura Popolare del regime fascista. Le commissioni dipendevano dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo, un incarico che per i primi sei anni fu tenuto dal giovane Giulio Andreotti, e in seguito da personaggi con una impostazione ancora più rigorista della sua, come Oscar Luigi Scalfaro.
Tra censimento delle natiche e legalizzazione della pornografia
Il Ministero dello Spettacolo venne istituito nel 1959, e nel 1962, dopo lunghe schermaglie parlamentari, la censura cinematografica fu riformata con una nuova legge, dallo spirito in apparenza più liberale. Restava però l’obbligo del nulla osta governativo alle proiezioni, e il successivo regolamento di esecuzione della legge introdusse una norma dagli effetti esiziali: la commissione poteva sospendere il giudizio invitando il richiedente a sopprimere o modificare singole scene o sequenze.
Scrivono Curti e Di Rocco:
“Una disposizione a dir poco infelice, che incentiverà pratiche di negoziazione sui tagli e sulle modifiche degne di un suk, di modo che la sorte di ogni singolo film sarà di fatto appesa ai pochi metri di pellicola da amputare da questa o quella scena, e favorirà uno spezzettamento del giudizio del film stesso, non più visto come opera unitaria ma come insieme di singoli spezzoni da soppesare statisticamente in base alla quantità di pelle nuda. E i verbali di commissione si riempiranno di freddi elenchi di scene telegraficamente annotate con notarile minuzia e complete del computo del metraggio amputato, in un fiorire di seni e cosce, natiche e congressi carnali, descritti e riportati con una prosa tanto più ridicola e trombona quanto più si sforza di essere burocraticamente altera.”
L’apoteosi di questa pratica si ebbe nei tardi anni Settanta, quando produttori spregiudicati sottoposero alle commissioni statali versioni soft-core di film che poi sarebbero stati rimontati con scene hard per la distribuzione nel neonato circuito dei cinema a luci rosse, che per qualche tempo godettero di una relativa immunità giudiziaria. Nel frattempo la pornografia era stata in gran parte legalizzata da alcune sentenze della Cassazione, e questo portò nel giro di pochi anni a una nuova situazione, non meno paradossale della precedente, nella quale Moana Pozzi e Ilona Staller, in arte Cicciolina, divennero icone culturali, sotto l’oculata gestione di Riccardo Schicchi e dell’agenzia Diva Futura.
Il film più censurato
Se Ultimo Tango rappresenta l’epitome della persecuzione giudiziaria, ci si potrebbe chiedere quale sia stato il film più martoriato dalle commissioni di censura statali. Sarebbe facile immaginare che la vittima fosse un’altra opera “scandalosa” degli anni ’70, come L’Impero dei sensi di Nagisa Oshima o Vizi privati, pubbliche virtù di Miklós Jancsó.
La risposta è sorprendentemente diversa: il film che detiene questo poco invidiabile primato è una commedia diretta nel 1953 da Mario Monicelli, Totò e Carolina. L’accanimento censorio contro questa pellicola, che oggi appare veramente assurdo, suscitò scalpore anche all’epoca, provocando interrogazioni parlamentari e articoli indignati della stampa di sinistra. Il film, tratto da un soggetto di Ennio Flaiano e sceneggiato da Age & Scarpelli, fu bocciato perché “offensivo della morale, del buon costume, della pubblica decenza nonché del decoro e del prestigio dei funzionari e degli agenti della Forza Pubblica”.
Tutte queste nefandezze vennero attribuite a una commedia in cui Totò impersona un agente di polizia di buon cuore, vedovo e con un figlio piccolo, che si prodiga per salvare una ragazza incinta, abbandonata dal fidanzato e arrestata per sbaglio durante una retata di prostitute. Respinto più volte e sforbiciato fino all’inverosimile durante quattro passaggi davanti alle commissioni, ciò che restava del film uscì nei cinema nel 1955, con scarso successo, e la versione originale fu restaurata e pubblicata solo nel 1999.
L’evoluzione del costume tra filmacci commerciali e pellicole d’autore
Naturalmente Totò e Carolina rappresenta solo un caso, anche se forse il più clamoroso, fra i molti di quell’epoca, che vide fra le vittime illustri delle commissioni di censura Il diavolo in corpo di Claude Autant-Lara e molte altre opere storicamente significative, nelle quali si cercherebbe invano qualche nudità conturbante. Il libro di Curti e Di Rocco ripercorre, attraverso le tortuose vicende di film d’autore e filmacci biecamente commerciali, l’evoluzione del costume e del sentimento popolare fra il dopoguerra e gli anni Sessanta e Settanta, con un progressivo “ammorbidimento” della censura governativa di fronte alle nuove tendenze, fino ai primi anni Ottanta, quando gli ultimi scandali riguardarono film come Querelle di Rainer Werner Fassbinder, mentre le edicole ormai esponevano senza vergogna pubblicazioni impresentabili solo pochi anni prima.
Anche per chi, come lo scrivente, ha vissuto gran parte di quel periodo, oggi è difficile ricordare un’epoca in cui rotocalchi popolari come ABC e Le Ore pubblicavano nudi femminili censurati con le famigerate “pecette”, applicate su pessime riproduzioni tipografiche in bianco e nero, che sembravano ridursi anno dopo anno, fino a scomparire del tutto intorno al 1973. Oppure rievocare le copertine trionfalistiche del “nuovo corso” di Le Ore nei primi anni Ottanta, che annunciavano Cicciolina in azione senza veli e, contestualmente, l’inizio di una nuova era di sfrenata libertà.
L’era della censura digitale
Sarebbe facile fare dell’ironia venata di nostalgia su quegli anni e quelle immagini. Oggi siamo più liberi perché con Internet e Google abbiamo accesso immediato a quasi tutto? Forse sì, almeno da certi punti di vista; ma nuove censure e repressioni ci stanno riproponendo il clima di quegli anni. Oggi Facebook vieta l’esposizione dei capezzoli femminili anche nei dipinti ottocenteschi. Il censore umano, che immaginiamo avesse brividi e pulsioni interessate mentre era intento alla sua opera, e forse si consolava pensando “è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo”, è stato sostituito da uno sterile algoritmo, da una poco brillante intelligenza artificiale alla quale è stato affidato il compito di salvaguardare la moralità del Web. Forse c’è qualcuno che lo considera un progresso.
Bibliografia essenziale:
Roberto Curti e Alessio di Rocco, Visioni proibite. I film vietati dalla censura italiana. Lindau, 2014.
Gian Piero Brunetta, Buio in sala. Marsilio, 1989.
Valerio Caprara, Dizionario del Cinema Erotico. Electa, 2007.