Di Lelio Naccari
“Gremito” è un termine che si userà sempre meno, almeno a breve e medio raggio, per ragioni facilmente intuibili, ma sarebbe stato adatto a un evento che per forza di cose ha dovuto selezionare (e selezionerà) oltre il possibile, sia in termini di artisti che di pubblico. Già solo questo ne da un’idea in termini di qualità e coraggio. La rassegna messinese Cortile Teatro Festival nasce quattro anni fa dalla collaborazione fra il regista Roberto Bonaventura e il “ristorattore” Giuseppe Giamboi, che anche quest’estate si sono detti, nonostante le difficoltà: “In fondo, cosa abbiamo da perdere?”
Il Festival, che si svolge all’interno del suggestivo cortile Calapaj-D’Alcontres, si suggella con degustazioni nell’attiguo “’A Cucchiara”, e quest’estate addirittura rilancia con l’innovazione, perché prevede, oltre i consueti spettacoli teatrali, anche serate di performance site-specific. Apre così una breccia nel panorama della sperimentazione, termine più che mai rappresentativo di una manifestazione che anche nelle edizioni precedenti è stata decisamente premiata dall’affetto del pubblico.
Amleto alla ricerca dell’imprevedibilità
Alla ricerca d’imprevedibilità e insicurezza è anche la performance che ha inaugurato il Festival, “Amleto” dell’attore e regista pugliese Michele Sinisi che si rimette in gioco stravolgendo la monumentale opera di Shakespeare, comprimendola nel frullatore della propria fantasia e facendola riemergere in un intricato vortice monologante di corpi, voci e linguaggi – fra i quali è difficile non restare invischiati – non senza una velata critica sui possibili problemi produttivi del mettere in scena in maniera ‘classica’ una drammaturgia di questo tipo oggi. L’esperimento è arduo soprattutto per la sacralità dell’opera di riferimento che può essere facilmente considerata il testo teatrale per antonomasia; ma l’artista non è nuovo alle prove shakespeariane e supera i timori reverenziali, immergendosi con ardore proprio in quei territori che costituiscono un’uscita dalla zona di comfort.
Ecco cosa racconta parlando della genesi di questo lavoro: “È possibile aggiungere ancora qualcosa ad un’ opera che è mito-teatrale? Ho cercato di avvicinarmi a più riprese al suo nucleo drammatico attraverso vari laboratori ma puntualmente mi confrontavo con l’ossessiva e malinconica qualità della lingua shakespeariana. Scoprivo di essermi avvicinato a un mistero senza riuscire a svelarlo del tutto. Una tragedia che sfugge all’analisi o che accetta tutte le analisi mentre racconta di un uomo che non accetta nulla. Rimane il mistero di un essere umano chiuso nella stanza dei ricordi e delle immagini che più l’assillano e da cui non vede l’ora di liberarsi.”
In un interessante e rischioso gioco bambino Sinisi torna per la prima volta in scena dopo il lockdown e fa perdere il suo Amleto in un dedalo schizofrenico ricamato sulla narrazione di papà Shakespeare, facendogli rincorrere i personaggi/sedie che a volte resistono al dire la propria. Un potpourri organizzato di parole e suoni, che dribblano la neocorteccia dello spettatore giungendo sfrontati al cervello rettiliano, come evocazioni al limite del surreale e onirico. Un tegame che svapora profumi forti e a tratti soffusi, di cui lo chef è sempre riconoscibile perché personalizza anche la ricetta più classica. Di Sinisi emergono la vocazione ludica e l’imperativo di gustarsi ogni momento della performance, del “qui e ora” e del contatto col pubblico, ed è forse questo che fa la forza di questo artista che è stato finalista al Premio Ubu.
L’artista è una porta aperta che invita noi a entrare nella stanza dei suoi giochi con una genuinità a tratti infantile e un’artigianalità che annullano le distanze, sia nella rivisitazione drammaturgica che nell’impianto scenico, in questo caso 7 sedie pieghevoli, una bottiglia d’acqua in vetro con 5 fiori finti e un piccolo stereo portatile. La solennità dell’opera è ironicamente citata attraverso il classico il trucco “emaciato” del principe di Danimarca, il costume in calzamaglia (di Luigi Spezzacatene) e da un cuscino rosso.
La rivoluzione gentile
In un toccante momento conclusivo Bonaventura ha sollevato interrogativi circa il (mancato) sostegno delle istituzioni alle iniziative culturali, ha voluto dedicare la serata all’attrice recentemente scomparsa Donatella Venuti e ha ringraziato per il supporto sia la rete di drammaturgia siciliana Latitudini che gli artisti, tutti di fama nazionale, che hanno voluto accogliere la valenza simbolica e concreta del progetto. Giuseppe Giamboi ha posto l’accento sulla vocazione principalmente culturale dell’evento, evidenziando come l’aspetto gastronomico sia solo una ciliegina su un’iniziativa dall’alto valore artistico.
La Rivoluzione gentile del bello è una qualità di presenza e analisi, di apertura e dialogo, che non si schiera contro qualcuno, ma guarda in faccia il vuoto che avanza e cerca di rovesciarlo. L’arte giunge sempre più come il grido necessario di chi non vuole perire fra sabbie mobili e stende ancora da esse una mano, senza avere la minima certezza che qualcuno l’afferri.
Rivoluzione è un modo di Esserci, nonostante tutto, una modalità faticosa fatta di cura, attenzione e ascolto. Una trincea lontana dalle mitragliate, comunicative e non, cui siamo abituati, e che scaglia solo bombe di umanità e gentilezza, nella convinzione ostinata e contraria che “esistano altri mondi, superiori”.