Di Lelio Naccari
Quando ti vengono somministrati dei Nutrimenti Terrestri in forma Quasi Anonima può esserci un rischio d’indigestione, ma è un’indigestione gravida di simboli, seppure questi si dibattano fra le tue budella.
Nel lavoro prodotto dalle succitate compagnie, “Questa è Sparta” sembra urlarci lo sguardo dell’attrice Giulia Messina scorporata nelle fattezze a opera di una forza superiore e oscura. “Cenere” di Auretta Sterrantino è lo studio ispirato dal poemetto di T. S. Elliot “La terra desolata” (The Waste Land) e presentato in prima assoluta al Cortile – Teatro Festival, organizzato dall’associazione “Il Castello di Sancio Panza” con il sostegno della rete Latitudini e curato da R. Bonaventura e G. Giamboi.
I due calici di rosato pre-performativi (ormai smaltiti) che accompagnano l’aperitivo presso A’ Cucchiara ammorbidiscono l’encefalo e lo rendono ben malleabile alle incursioni psicofisiche dello studio sterrantiniano. Vale forse la pena ricordare che Elliot compose il poemetto tra il dicembre del 1921 e il gennaio del 1922 mentre era a Losanna, ricoverato per problemi d’instabilità psichica, in seguito a un forte esaurimento nervoso.
Dopo i primi enigmatici movimenti della Messina – Formatasi all’Istituto Nazionale del Dramma Antico – su ognuno dei quali si dovrebbe scrivere un pezzo a parte, anche la parola nasce, sulla pedana di legno 2 metri per 3, sgorgando cristallina dalle fauci dell’intensa interprete. Ma ci si accorge presto che lo sforzo di carpire razionalmente ogni concetto della lingua fisicizzata di Elliot è vano (almeno per le qui presenti risorse cognitive).
Tanto vale abbandonarsi al rivolo lessicale facendosi frollare come quarti di bue sul ring da un abile pugile. La parola levigata e scandita è utensile preciso, che come il gesto agisce oltre l’ordinario, inchiodando un affresco post umano. La poesia del e nel corpo opera a livello post conscio. Chissà cosa vuol dire. Il gioco non è riconoscersi, se non come forze in causa dell’avvitata critica e nella scontentezza verso un genere umano decisamente fuori rotta, senza sapere dove si sta andando. Assistere alla tempesta di suoni e movimenti che lasciano l’attrice/macchina – concentrata e in grado di reggere da sola l’ora e un quarto dell’affilato round col pubblico – vuota anche di se stessa.
V per Vedetta / Sono apparso a T. S. Elliot
L’attrice scompare alla sua biografia in un impeto di energia potente ma canalizzata, asservita a una partizione precisa, strutturata e a tratti meccanica, elevandosi, con la perdita di sé, a Supermarionetta* che nulla più ha di umano, e per questo adatta a veicolare le idee di un teatro che vuole spingersi al di là del reale manifesto, per toccare gli aspetti più oscuri e obliqui dell’essere.
Un corpo attraverso il quale transitano parole e gesti che si servono di esso come strumento per i loro fini; filo d’erba arido, eppure mosso dal vento. Corpo prospettico da illuminare e rendere ora sottile e leggero, ora vacuo e pensante, ma sempre in pasto agli occhi circostanti l’arena. Simulacro e simbolo di una società fiera delle proprie vanità, in cui non c’è più un bandolo di verità a condurre il gioco della vita, ma un rituale altalenante di valori plausibili e commerciabili, costantemente in discussione, e ridefiniti dal comodo e dalla necessità.
Così, in Auretta Sterrantino – per cui il senso critico verso la disumanità pare uno dei temi portanti- la persona si perde asservita al silenzio, al passare del tempo, alla dimenticanza, rinvenuta solo a sprazzi dalla violenza del proprio dolore, dall’attrito con dinamiche mentali e sociali, impossibilitata ad adattarsi fino in fondo a una condizione sconfitta in partenza.
La materia grava sulle nostre spalle come un fardello impossibile da sopportare, l’essere è esserci nel mondo e con gli altri, che a volte sono il male. Vivere è sbrogliare continuamente una matassa. Condizione fertile per l’artista che non vuol darsi vita facile.
Degno di nota che per esplorare questi mondi sembra si viri verso una de-umanizzazione dell’agente, senz’altro necessaria alla poetica, la cui immagine è cancellata per lasciar posto alla funzione in seno all’opera. Restano i corpi, sapientemente scelti da Auretta, che tra gli altri ha il merito di essere una dei registi messinesi che ha sperimentato una buona varietà di attori, spesso anche giovani. Corpi a volte epici, che parlano da sé, pronti a lasciarsi forgiare nell’incontro/schianto con le creazioni luminose e sceniche delle sue opere, giovandosi i lavori della drammaturga e regista di evidente cura estetica.
Torna a casa lessico
“Per una poetica dell’impossibile” dice l’headline delle note di regia. Ci si potrebbe chiedere da dove nasca questa necessità di affrontare l’impossibile quando abbiamo già abbastanza problemi col possibile. Ma una risposta plausibile potrebbe essere che per contattare degnamente il possibile sia necessaria una buona relazione con l’impossibile, inteso come invisibile. Si cerchi quindi una decifrazione impossibile per stare al passo con l’indefinibile.
In uno studio in genere si è liberi, quindi tutto è possibile. Per conseguenza, nulla è impossibile. Ergo, se non vi è nulla che sia propriamente impossibile, come si fa a studiarlo? Si va a tentativi – tutti persi in partenza – intorno a un buco vuoto che come un toroide vomita fuori se stesso. Così però sembrerebbe un bluff. Aspettiamo. Siccome in uno studio tutto è possibile, allora è impossibile trovarvi l’impossibile da studiare! Menomale. Ecco qui tornare l’impossibile, stavolta non come oggetto di studio, ma in veste diversa, come osservatore, studente, occhio che guarda e immagina. Prova, torna indietro, si ripete e si riperde, se ne pente e si riprende.
In questo fiume di codici e significati già scritti, ci sgretoliamo nei nostri corpi dentro pedane reali o mentali, perché osservando si proietta se stessi, e lo si fa anche con la semplice scelta di ciò a cui prestare attenzione. Una gabbia già scritta da cui non si fugge, proprio come quella in cui si dibatte Giulia. Siamo noi, a essere impossibili, e in questo non essere altrimenti possibili c’è libertà, paura e poesia. Impossibile e inafferrabile è chi nonostante tutto crea.
Considerazioni Postume
Così, finiamo anche noi in Cenere, assorbiti e calamitati, con diversi gradienti di attrazione, nel vortice che risucchia e rigurgita suoni e gesti, significati e significanti, grazie alla creatura corpo/voce/musica/luci portata in vita dai suggestivi pavimenti sonori di Vincenzo Quadarella e dalle sinfonie luminose di Stefano Barbagallo, al cui connubio elettro-sismico va un particolare plauso. Il gioco di parole e l’assonanza fanno a tratti capolino fra le righe di Elliot a indicare anche la possibilità di perdita e contaminazione fra forma e contenuto.
La struttura rettangolare in legno crea un coagulo rosa-marrone col corpo dell’attrice e coi suoi abiti essenziali, allora anche lei si fa burattino di movenze, parole e suoni, strumento atto a tele-trasportare in un altrove, anch’esso desolato in sé, ma reso psichedelico dai riverberi cangianti di luci lontane, in questo caso fari che cambiano atmosfera in un batter d’occhio.
Cambiano i ritmi, i tempi, le invettive e i lamenti, a volte malinconicamente laconici a volte più diretti e accesi; accessi a valli remote, da cui tornano come miraggio, quasi non fossero più lì da millenni oppure eternamente ciclici, immortalati in quella trappola, da cui la novella Prometeo non porta fuoco e luce bensì oscurità e tormento.
Contentezza non ce n’è molta, diciamolo, a parte quella commista a stanchezza degli artefici dell’opera una volta conclusa la performance, per la riuscita impresa e per gli applausi. Ci si ritira dunque finalmente dal sanguinoso duello ma solo per lanciarsi in nuove inquietudini e per igienizzarsi le mani prima di tornare a scavare nel torbido di viscere intrise di macerie.
Uno o due elementi del pubblico, uscendo dal Cortile e andando a cena, confessano peculiari osservazioni: “Si parlava troppo poco di Cenere per essere uno spettacolo che si chiama Cenere”.
Ma forse non era uno spettacolo, o forse la cenere rimasta è stata portata via dal vento.
*il termine di Supermarionetta è stato coniato da Craig. Per approfondire: https://www.iltermopolio.com/letteratura/-craig-e-la-supermarionetta